di Franco Sezzi
Giacomo Ferrari moriva in miseria a Quattro Castella (Reggio Emilia) un umile contadino che seppe diventare qualcuno grazie al suo amore per la lettura, amore che, nella maturità, concentrò sulla Divina Commedia.
Il grande poema di Dante divenne ben presto la cosa più importate della sua vita: ad esso dedicò anni di studio; per esso si fece scultore autodidatta intagliando un poderoso bastone con una sessantina di scene tratte dalle tre cantiche della commedia; col suo bastone girò poi in lungo e in largo quasi tutta l'Italia fermandosi nelle piazze, nei mercati, nelle fiere ad illustrare alla gente del popolo le meravigliose storie dell'avventura dantesca.
L'INFANZIA E LA GIOVINEZZA
Giacomo Ferrari nasce a Quattro Castella nel borgo di Rio da Corte il 2 aprile del 1884.
Il padre Giuseppe (chiamato in paese col soprannome patronimico di "Ambrosèin") ha in affitto un piccolo appczzamento di terra, inoltre lavora come bracciante e gestisce una trebbiatrice, di quelle d'al¬lora, mossa da una macchina a vapore alimentata a legna, tirata da buoi negli spostamenti, con la quale, nei mesi di luglio e di agosto, gira per i paesi vicini e più su verso la montagna a trebbiare il frumento che avrebbe fornito ai contadini della zona il pane per tutto l'anno.
Le condizioni economiche della famiglia non sarebbero delle peggiori, considerati i tempi, ma ahimè la prolificità di Ambrosèin e di sua moglie Aldegonda Violi è senza limiti e in diciotto anni - dal 1882 al 1900- nascono undici figli: Medea (1882), Giacomo (1884), Umberto (1887), Cesare (1888), Riccardo ( 1889), Verina (1892), Aurelia (1894), Fermino (1896), Augusto (1897), Maria (1898), Secondo (1900). Per quanto i figli più grandi comincino presto ad aiutare sia nei campì che nel lavoro dì trebbiatura, sfamare tante bocche diventa sempre più difficile e la famiglia vive sempre in maggiori ristrettezze.
Giacomo è, fin da bambino, diverso dai suoi fratelli e, in generale, dai suoi coetanei. Appena a casa da scuola o appena finito di aiutare nei campi, corre nei boschi che coprono le colline del paese. Lì vive la sua vera vita, quella sola che per lui conti veramente, in simbiosi con la natura a cercare more fra i rovi o sui gelsi; a trovare le giuste "forcelle" per fabbricare le sue imbattibili fionde; a costruire, coi giovani rami del pioppo, rinfoli a canna - arte in cui eccelle - da barattare con palline o frutti; ma soprattutto a fantasticare da solo incarnandosi nei personaggi dei primi libri letti a scuola o visti entrando di nascosto nella tenda delle compagnie di guitti che passavano dal paese.
Più grande, diventa abilissimo nel preparare trappole per animali selvatici e in effetti riesce a catturarne parecchi, fra i. quali anche qualche tasso e perfino un paio di volpi, animali che, anche allora, non erano poi molto comuni sulle nostre colline e comunque erano certamente molto difficili da prendere.
E' proprio durante il tentativo di catturare un tasso che corre, insieme a un fratello minore, una brutta avventura: è il fratello, più monello di lui, ad infilarsi nello stretto foro che porta all’interno della tana, ma quando si tratta di uscire le cose si complicano, e molto. Giacomo lo afferra per i piedi tirandolo all’indietro, ma la giacchetta si arrotola sotto le ascelle del bambino impedendogli di uscire col rischio di soffocare. Fortunatamente Giacomo non perde il sangue freddo e col bastone che ha con sé riesce ad allargare il foro e a tirar fuori il fratellino, spaventatissimo, ma sano e salvo.
Giacomo cresce inquieto, afflitto da una povertà che via via si aggrava, estraneo all'ambiente limitato e meschino in cui è costretto a muoversi. Non che lo deridano, la sua personalità e il suo carattere lo fanno rispettare, ma certo non lo capiscono: chi si crede di essere questo contadino che parla di cose diffìcili, che non interessano ai suoi coetanei? Ha fatto la terza come noi e vuole insegnarci cose che neanche capiamo. Pensano che si dia solo delle arie.
Giovanissimo, si avvicina alle idee socialiste che stanno rapidamente diffondendosi nelle nostre campagne. Legge avidamente i numeri della Giustizia che riesce a procurarsi, anche se il socialismo riformista e cooperativo dei Prampolini e degli Zibordi non gli basta; lui è sostanzialmente un ribelle, sogna cambiamenti molto più radicali. Conserva invece molto amorevolmente alcuni vecchi numeri de "Lo Scamiciato" il cui socialismo militante ed apocalittico lo affascina profondamente.
Ma quello che più si avvicina ai suoi ideali è l'utopia anarchica, che comincia ad affermarsi nel reggiano e che anche a Quattro Castella trova alcuni adepti appassionati, seppure interpreti di un anarchismo ancora sostanzialmente rozzo e ribellistico.
Giacomo, che però tutti chiamano Nino d'Ambrosèin, si mette con loro ma in modo sempre problematico sia per i motivi contingenti che vedremo, sia per le troppe diverse ambizioni culturali ma soprattutto perché lui, anche se in modo ancora confuso, dell' anarchismo comincia a cogliere l'ansia dì cambiare l'uomo oltre che i rapporti con i padroni. Insomma, il suo piccolo mondo contadine e conformista, gli sta sempre più stretto.
MARITO E PADRE
Nel febbraio del 1909, a venticinque anni, pianta lì tutto e va a Genova in cerca di lavoro. Anche qui però la vita è tutt’altro che facile; la grande città non favorisce l'inserimento e Giacomo deve arrangiarsi, vivendo di lavoretti saltuari mal retribuiti sul piano economico e insoddisfacenti per le sue ambizioni.
Non si sa molto del suo soggiorno genovese, tranne che è lì che conosce la donna che diventerà sua moglie. E' una reggiana anche lei, nata in comune di Vetto, ma trasferita a Genova per lo stesso motivo: trovare un lavoro. Si chiama Diomira Maioli (anche se spesso la chiamano col secondo nome, Filomena) ha 23 anni, fa la donna di servizio presso una famiglia borghese, come molte altre sue compaesane nel capoluogo ligure.
Quello nato fra i due giovani reggiani trapiantati nella grande città deve essere stato proprio un amore a prima vista se il 18 febbraio del 1910, a meno di un anno di distanza dal loro primo incontro, la Diomira mette al mondo un bel maschietto. Giacomo ne riconosce la paternità e lo chiama col nome di suo padre: Giuseppe. Un mese dopo la nascita del figlio i due giovani regolarizzano la loro unione, sposandosi con rito civile nel municipio di Genova.
L'arrivo del piccolo Giuseppe, oltre ad aver certamente fatto perdere il lavoro alla Diomira, diventa un grosso problema economico e logistico per Giacomo che deve lasciare la sua misera pensioncina e trovare un alloggio adatto alla famiglia che si era formato. Tutto questo, insieme all'impossibilità di trovare un lavoro continuativo, lo convince dell'inutilità di proseguire nel tentativo di sistemarsi definitivamente a Genova: nel settembre dell'anno dopo (1911)torna a Quattro Castella. Qui trova un alloggio - tre stanzette in un abbaino - nel borgo di Monticelli, in casa della famiglia Montanari e riprende la dura vita del bracciante agricolo. Nascono a breve distanza altri quattro figli: Amedea nel 1912, Lina nel 1914, Euclide nel 1915 e Mira nel 1918.
Mentre alcuni dei suoi fratelli sono emigrati chi in Brasile chi addirittura in Australia, Giacomo non si muove da Quattro Castella, dove ora riesce a lavorare abbastanza regolarmente e soprattutto può coltivare, specialmente nelle interminabili giornate d'inverno, la sua vecchia passione per la lettura e il suo nuovo passatempo: l'intaglio del legno.
Leggere, legge tutto quello che capita: giornali anarchici, romanzi d'appendice, poemi classici; in quanto all'intaglio comincia con piccoli pezzi di legno e si specializza poi in bastoni da passeggio ornandoli di figure tratte dalle sue più varie letture. Lavora il legno duro, preferibilmente il bosso, col più semplice degli attrezzi, una roncola pieghevole (la ronchina) che tutti in campagna tengono in tasca fin da ragazzini.
In questo trascorrere monotono degli anni ci sono due avvenimenti che lo segnano profondamente: l'avvento del fascismo e la separazione dalla moglie. L'anarchico Giacomo Ferrari è subito nel mirino dei fascisti più esagitati del paese; e se c'è chi lo considera in fondo in fondo solo un innocuo sognatore, altri ne colgono la superiorità intellettuale e lo considerano particolarmente pericoloso. Come risultato subisce provocazioni e minacce che proseguono con qualche ceffone e si concludono con una solenne bastonatura.
Ancor più grave il problema con la moglie: lei non è in grado di capire e quindi di condividere gli strani interessi del marito, che anzi ritiene la causa prima delle loro difficoltà economiche; i rapporti fra loro si fanno sempre più radi e difficili.
Anche se Giacomo non se ne rende perfettamente conto, il suo matrimonio è ormai in crisi profonda. La Diomira però, anche se ha ormai raggiunto la quarantina e superato cinque maternità, è ancora una donna piacente, almeno secondo i canoni del tempo e dell'ambiente in cui vive: non le mancavano quindi i corteggiatori. Uno di questi è proprio il più grande amico di Giacomo, che con lui ha diviso l'ideale anarchico e subìto le angherie degli squadristi.
I segreti, in un piccolo paese, non restano segreti a lungo: Giacomo li coglie in flagrante. Ne scaturisce una rissa tempestosa, sotto gli occhi dei molti curiosi accorsi, interrotta solo dall'arrivo dei carabinieri, cui non par vero di mettere per qualche ora in guardina due "noti sovversivi".
Subito dopo, la Diomira torna a casa ma in quel di Vetto, portando con sé la figlia più piccola. Mira di otto anni. E" il maggio del 1926.
La rottura è definitiva: i due non si rivedranno mai più e solo anni più tardi Giacomo stabilizzerà un altro rapporto con una donna (di cui peraltro non si è riusciti a conoscere altro che lo strano soprannome: Barba).
LA DIVINA COMMEDIA
Nel frattempo la salute di Giacomo va peggiorando: una nefrite, trascurata inizialmente, gli lascia delle disfunzioni renali che si aggravano fino a costringerlo ad una lunghissima degenza. E' proprio in questo travagliatissimo periodo che scopre Dante: il suo padrone di casa; Alfredo Montanari, gli presta una Divina Commedia in una vecchia edizione economica priva di note e commenti.
Giacomo la legge avidamente, ma sono troppe le cose che non capisce e sta per rinunciare, quando il medico condotto, il dottor Francesco Mazzini, vede il modesto libretto sul comodino e si mette a parlarne con lui. Era questo medico un uomo burbero, che dava poca confidenza ai suoi pazienti, ma possedeva una solida cultura letteraria ed era, cosa che lo avvicinava a Giacomo, profondamente antifascista, seppur della sponda opposta, quella liberal-radicale. Il dottor Mazzini. che già era rimasto colpito dal carattere tutto particolare di Giacomo e dal suo amore per la lettura, gli spiega l'impossibilità di capire qualcosa di Dante senza un massiccio aiuto di note esplicative e opportuni commenti e gli porta un curiosissimo libro:
La Divina Commedia di Dante Alighieri (sic) spiegata al popolo da Matteo Romani *. arciprete di Campegine: tre ponderosi volumi, che non sono una Divina Commedia con le solite note a pie pagina, ma, al contrario, una specie di versione in prosa del poema, con ampi commenti e diffuse citazioni dei versi danteschi.
Le opinioni di molti dei massimi dantisti dell'epoca furono molto critiche sull'opera di Don Romani, accusato di essere troppo arbitrario nella sua interpretazione del poema, specialmente in merito agli aspetti teologici e soprattutto astronomici.
Questi dettagli non interessano però il nostro Giacomo, anzi il lavoro del vecchio sacerdote sembra costruito per le sue capacità di appassionato autodidatta e apre alla sua comprensione le difficili cantiche del sommo poeta.
Giacomo si innamora sempre più, legge e rilegge più volte tutta l'opera, fino a mandarne a memoria una gran parte e certamente tutti i versi dedicati agli episodi che diventeranno l'oggetto del suo lavoro d'intaglio.
IL BASTONE
Dopo alcuni mesi passati a letto, inizia una lenta convalescenza, durante la quale può alternare alla lettura i primi tentativi di scolpire su legno le figure che più avevano colpito la sua fantasia. Comincia così con dei bastoni di bosso trovati nei boschi vicini a casa, ma i risultati, seppur interessanti, non lo soddisfano: i bastoni sono piccoli, troppo piccoli per il progetto che ha in mente; gli servono al più per sviluppare alcuni bozzetti. Finalmente però riesce a procurarsi uno splendido tronco di bosso con un diametro di quasi dieci centimetri e lungo poco meno di due metri e mezzo.
Ci lavora per oltre sei mesi con i suoi rudimentali attrezzi e ne ricava qualcosa di veramente importante: l'intaglio diventa scultura, grezza ma con un suo vigore primitivo; il tronco di bosso diventa una illustrazione, primordiale ma estremamente comunicativa, dei brani più popolari della Divina Commedia.
I vicini di casa seguono l'evoluzione delle sculture, si fanno spiegare, commentano, giudicano variamente, ma tutti inevitabilmente si interessano.
Una volta finito il suo lavoro, Giacomo lo porta in piazza a Quattro Castella e comincia a rispondere alle domande dei curiosi che gli si fanno intorno. Alcuni che si considerano più istruiti abbozzano sorrisi di superiorità, molti si stupiscono nel sentire Nino parlare di cose così difficili, ma su tutto prevale l'ammirazione per l'imponente lavoro di scultura che si trovano davanti. Si raduna altra gente e in breve la conversazione diventa illustrazione e questa un po' lezione, un po' spettacolo.
Nei giorni seguenti l'esperimento in pubblico si estende ai paesi vicini: il mercato del giovedì a San Polo, quello del lunedì a Montecchio. Anche qui la gente si raduna, fa domande, s'interessa; i buoni risultati confermano Giacomo nella decisione che da tempo gli ribolle dentro:
Dante, La Divina Commedia, il suo bastone diventeranno, anche sul piano materiale, la sua vita, il suo pane.
IL CANTASTORIE
II brano che segue è tratto da un articolo di M. Giuliani e G. Micheli su "La Giovane Montagna" del 15 dicembre 1938-XVII"
Da allora cominciarono le sue peregrinazioni. Al principio della buona stagione, metteva a punto la bicicletta, con impegno di sportivo, quindi, in compagnia e con l'aiuto, come egli diceva, del bel tronco in bosso intagliato, legato al telaio della bicicletta, e della inseparabile mazzettina infilata nel manubrio, lasciava la sua rustica casa permettersi per le grandi vie maestre dell'alta Italiae della Tosca¬na, spingendosi, talora, sino a Roma.
Si fermava nei borghi, nelle città, nelle spiagge balneari o nelle stazioni climatiche, declamava e commentava, spiegando gli episodi della Commedia da lui intagliati sul legno, sfogando in tal modo il suo bisogno di propagare il verbo dantesco e riuscendo insieme a guadagnare quel tanto che bastava a lui per vivere e per aiutare la bisognosa famiglia.
Ma aveva apportate, come già si è detto, efficaci innovazioni anche in questo vecchio genere di esibizione ambulante.
Certo, quando arrivava e si fermava tra le popolazioni rurali della campagna, o dei borghi, si contentava di presentarsi alla buona, fors'anche con un po’ di sopruso ciarlatanesco rispetto alla ingenuità degli ascoltatori, e sicuro, per esperienza, della cordialità ospitale e soccorrevole dei contadini. Ma quando arrivava in qualche città cambiava metodo.
Depositata la bicicletta, aveva cura di recarsi nelle redazioni dei giornali, con l'accorgimento di un conferenziere o di un artista, che si vuol rendere benevoli i critici. E ci riusciva, é un ometto compito, cordiale, dal volto rosso e i capelli appena brizzolati, scriveva benevolmente presentandolo ai lettori, uno dei tanti cronisti che gli dedicarono articoli, trafiletti e corsivi.
E nei colloqui con giornalisti o scrittori si ingegnava di farsi valere, di parlare ornato, di sfoggiare dottrina, nello sforzo di far bella figura, quasi sempre in questo più fortunato del sarto letterario dei Promessi Sposi.
Vediamolo, per esempio, nel 1936 alla redazione della Stampa a Torino. Andato al giornale, nel foglio offertogli dall'usciere scrisse: Giacomo Ferrari, contadino, artista. Rimaneva ancora una riga: desidera conferire…. Ed egli scrisse risoluto: Su Dante.
Può immaginarsi il successo di quel foglio in giro per la redazione: ma egli ottenne il colloquio desiderato: potè parlare al capocronista della sua passione dantesca, presentare e illustrare il suo istoriato bastone. E la sera, quando si presentò al pubblico nella popolare piazza Vittorio, era già preceduto dalla curiosità stuzzicata da un lungo corsivo di cronaca.
Meglio ancora se gli accadeva di imbattersi in un articolista che, senza il tono benevolmente ironico dei cronisti, si rivolgesse con un saggio folcloristico di terza pagina ai lettori intellettuali o al pubblico mondano delle stazioni balneari o climatiche.
Così verranno gli articoli del Telegrafo di Livorno, il più notevole e comprensivo di quanti lo riguardano, del Gazzettino di Venezia e di altri giornali e riviste, come si può vedere su quella specie di bibliografia inserita nella nota autobiografica della cartolina. Davanti al pubblico si faceva, poi, semplice e schietto.
Appendeva, sul muro di una piazza o agli alberi di un viale, un rettangolo di tela sulla quale erano impressi, in grossi caratteri, i giudizi della stampa, sotto un grande titolo dantesco: Giornali che mi fanno onore ( sottinteso: e di ciò fanno bene), ed aspettava, col bastone intagliato poggiato in terra e tenuto diritto con la sinistra, che gli si raccogliesse intorno un po' di gente. Poi recitava e commentava gli episodi della Commedia intagliati nel bosso, indicandoli, via via, con la sottile inseparabile bacchetta nervosamente impugnata nella destra.
Lo spettatore intelligente rimaneva assai meravigliato della recitazione e del commento. Diceva i versi - annota un osservatore- in modo speciale, senza enfasi, ma senza colorito, come se parlasse con parole sue, e pronunziava le frasi più scultoree come se dicesse le cose più comuni, nella più umile conversazione. Eppure egli capisce bene quello che dice.
Ma qualche volta anche, se si imbatteva in accenni politici o ermeneutici, si accendeva: ed ecco - registra un altro cronista - la bacchetta puntarsi in segno d'accusa; la figura simbolica di un papa che tiene il potere temporale e il potere spirituale "che Dante era contrario, i versi guizzano come spade e pungono e tagliano.
Del resto l'intelligente commento dimostrava come il Ferrari si fosse ben resa ragione dei fatti storici, dei simboli, delle allegorie, della struttura del poema e delle relazioni degli episodi, e si fosse così appassionato per le questioni teologiche da mostrare una vera predilezione, strana in un lettore popolano, per il Paradiso.
Ma le disquisizioni teologiche annoiavano il pubblico della strada: l'esposizione poetica doveva affrettarsi alla fine e l'adunanza allo scioglimento: ed ecco il momento del fervorino: il discorso - notava uno spettatore - dall'alto dei cieli ricade sull'infiammazione renale, i pietosi uditori ricordino che Giacomo Ferrari ha quattro figli e che il più grande, di vent’anni, giace ammalato di nefrite, all'ospedale di Castelnuovo né Monti.
Ma raccolto l'obolo (2\ talora il fervido dentista, con disinteressata passione di controversista. si attardava in calorose e lunghe discussioni con qualche più istruito e incuriosito ascoltatore, addentrandosi in questioni dottrinali, citando a proposito Agostino e Tommaso. mostrandosi, insomma, in possesso di una conoscenza non superficiale del poema".
Fra i tanti episodi curiosi accorsigli nel suo lungo vagabondaggio vale la pena di ricordare questo capitato a Roma nei primi anni trenta.
Giacomo entrava in piazza Venezia sulla sua gloriosa Wolsit col lungo bastone, chiuso nella sua custodia di tela grezza, sostenuto dalle staffe applicate al telaio della bicicletta. All'improvviso due uomini si lanciano su di lui, lo afferrano per le spalle e lo trascinano via, mentre un terzo li segue, spingendo con mille precauzioni bicicletta e bastone. Giunti al vicino commissariato, si trattava infatti di poliziotti in borghese, la faccenda si chiarisce: la cosa, nascosta sotto la custodia di tela, non era, come avevano pensato i questurini, un cannoncino o un bazooka antelitteram destinato ad attentare alta vita del Duce, ma semplicemente il bel bastone scolpito. Giacomo mostra poi i ritagli dei giornali che parlano di lui e la cosa finisce con un’illustrazione "privata" degli episodi danteschi all’esterrefatto commissa¬rio, costretto a ripescare nella memoria gli sbiaditi ricordi delle sue letture del liceo.
LA MORTE
Ai primi di dicembre del 1937, al rientro a casa dopo una delle sue lunghe peregrinazioni, la sua salute, forse anche minata dalla vita randagia degli ultimi anni, va peggiorando e, dopo pochi giorni Giacomo è di nuovo costretto al letto. Stavolta però la malattia dura meno: subito si aggrava e a nulla valgono le amorevoli cure del dottor Mazzini, il suo padrino dantesco.
Pochi giorni dopo, don Luigi Bertani, arciprete di Quattro Castella, è in riunione con gli uomini d'azione cattolica per la preparazione delle feste natalizie, quando gli viene detto che Nino d'Ambrosèin ha chiesto di andarlo a trovare.
Il vecchio sacerdote pianta lì tutto e si affretta verso la casa di Giacomo, sorpreso e felice che un uomo tanto lontano dalla fede abbia richiesto l'estremo conforto religioso. Torna dopo un'oretta, ancora tutto eccitato e racconta ai suoi fedeli della lunga conversazione col moribondo e della somministrazione dei sacramenti, ma soprattutto delle ultime parole di Giacomo che, parafrasando ancora una volta il suo grande poeta, gli aveva detto:
Signor arciprete l'ho voluta qui perché non voglio andar nella città dolente, non voglio andar nell'eterno dolore, non voglio andar fra la perduta gente….
Il giorno dopo, l'undici dicembre 1937, la malattia ha il sopravvento sulla sua fibra già debilitata e Giacomo Ferrari muore nella sua misera stanzetta.
ANCHE DOPO MORTO
Nella primavera del 1941 i parenti di Giacomo Ferrari vollero realizzare una lapide che ne ricordasse il lavoro e lo studio su Dante. Si rivolsero perciò al Dottor Francesco Mazzini che tanto aveva seguito e facilitato l'impegno del loro congiunto nello studio e nella diffusione della Divina Commedia.
Il Dottor Mazzini promosse una colletta tra i suoi amici castellesi, raccogliendo la cifra di 119 lire che,sommate ad altre 100 lire fornite dal fratello dei defunto, Riccardo, per conto dei figli, bastarono alla bisogna. Non sentendosi però in grado di farlo personalmente, il dottor Mazzini preferì coinvolgere l'onorevole Micheli nella stesura dell'epigrafe. Quest'ultimo ne affidò l'incarico al professor Manfredi di Pontremoli.
La lapide, realizzata dai marmista Raul Bosi e posta all'interno del muro di cinta del cimitero nel lato a ponente, diceva:
GIACOMO FERRARI
Contadino
Vinse l'ostinazione della fortuna
con tenace volontà e nativa forza d’ingegno
ritrovando un operoso ideale d'arte e di fede
che placò il travagliato suo animo
e sostenne il corpo fiaccato
nello studio della DIVINA COMMEDIA
da lui illustrata con originali sculture
e fatta conoscere al popolo
per la città d' ITALIA
meritando il plauso dei buoni e l'ammirazione dei dotti.
VII Apr. MDCCCLXXXIV - XI Dic. MCMXXXVII
Amici ed estimatori con i figli
Q.R.P.P.
La cosa non piacque però ai fascisti locali, messi fra l'altro in allarme da un'informativa del brigadiere a piedi comandante della stazione di Quattro Castella, completa dell'elenco dei sottoscrittori, inviata al comando qualche giorno prima della posa della lapide: Giacomo Ferrari era stato un anarchico e quindi, anche se da tempo malato e lontano dalla politica, era da considerare un pericoloso sovversivo. Cosa si celava dietro la posa di una lapide in suo onore? Cosa aveva spinto il dottor Mazzini notoriamente antifascista e addirittura in odore di massoneria, a darsi tanto da fare?
Convinte che l’amore per Dante fosse solo una misera scusa per esaltare la memoria di un antifascista, le autorità locali mandarono alcuni facinorosi a distruggere la lapide, spingendo la loro stupidità fino a maltrattare anche da morto un compaesano che, anche da vivo, avrebbe meritato ben altra considerazione. Il dottor Mazzini fu costretto a stendere una lunga autodifesa, basandola soprattutto su tre punti:
- il Ferrari da tempo aveva abbandonato ogni attività politica per dedicarsi solo alla sua attività di cantastorie dantesco e alla famiglia. A riprova di ciò la sua morte coi conforti religiosi;
- il podestà, il segretario comunale ed altri funzionari erano al corrente di tutto ed avevano dato la loro approvazione;
- al di fuori dello stretto ambito locale il Ferrari aveva ricevuti ampi riconoscimenti da giornali nazionali e personalità della cultura italiana al di sopra di ogni sospetto.
Alla fine comunque dovette presentarsi in questura e subire un fastidioso interrogatorio. Fortunatamente il maresciallo che lo interrogò non doveva avere molto a cuore le sorti del partito fascista, perché accettò tutte le giustificazioni dell’inquisito e liquidò rapidamente la faccenda. Nel dopoguerra la lapide fu rifatta ed ora è posta sulla parete ovest della cappella mortuaria del cimitero dove finalmente Giacomo Ferrari ripesa in pace.
* Don Matteo Romani (Dinazzano 1806 - Campegine 1878) dopo aver insegnato algebra e geometria al seminario di Reggio Emilia, fu nominato arciprete di Campegine (1843). Il nuovo incarico gli permise, pur nell’impegno dei suo apostolato, di dedicarsi intensamente agli amati studi danteschi, che, dopo svariate altre pubblicazioni, sfociarono in un'opera originale come concezione ed estremamente importante come dimensioni: la Divina Commedia di Dante Alighieri esposta al popolo da Matteo Romani..., tre grossi volumi, uno per ogni cantica rispettivamente di 623, 600, 761 pagine. Lo scopo dell'opera è chiaramente esposto nella breve ed energica prefazione: spiegare distesamente tutto il testo, sì che il popolo possa intendere il principe dei nostri poeti.
Franco Sezzi è nato a Quattro Castella nel 1922. Ingegnere, ha lavorato nel Servizio Esperienze dell'Alfa Romeo e, in seguito, nei laboratori di ricerca dell'ENI, concludendola carriera come presidente di una società dell'Agipper la produzione di additivi. Durante i quarant'anni vissuti a Milano ha sempre mantenuto i contatti col paese natale dove è rientrato nel '92, al termine dei suoi impegni di lavoro. In questi ultimi anni ha pubblicato un giornale: "La Contrada ", sul quale ha scritto articoli dedicati alla storia minore di Quattro Castella, al suo dialetto, ai proverbi locali.
In realtà aveva scritto parecchio anche in precedenza ma si trattava dì soggetti come Detonazione e preaccensione o Utilizzazione razionale dell'energia nell'automobile che ben poco avevano a che fare con, la cultura popolare e i suoi interpreti.
A questi argomenti ha potuto applicarsi solo da poco e così è nato, fra l'altro, il suo interesse per lo straordinario contadino-scultore-cantastorie che è stato Giacomo Ferrari, al quale ha dedicato questo meritato ricordo. (S. P.)