© fotografia di Riccardo Schwamenthal
di Maurizio Agamennone (Università degli studi di Firenze)
IL CANTASTORIE N. 73 - ANNO 45° - TERZA SERIE - LUGLIO-DICEMBRE 2007
L'opera di Caterina Bueno, considerata in retrospettiva, mi sembra riconducibile a un codice emotivo originario che, successivamente, nel tempo, ha assunto le forme di una intuizione poetica che ha marcato tutto il suo lavoro, sia nell'azione di interprete che in molteplici attività di operatrice culturale: intendo, cioè, una condizione psicologica che si può descrivere come una sorta di curiosità inesauribile per le persone, le esperienze maturate, i valori incorporati, i modi espressivi praticati, nella consapevolezza che ogni uomo, ogni donna è un'isola, un individuo irripetibile, pur nella rete delle relazioni familiari, sociali e culturali che ne segnano la vicenda umana. In questo senso, i protagonisti della etnografia realizzata da Caterina Bueno sono, senz'altro, i testimoni di abitudini espressive condivise, rappresentative di identità locali, di esperienze comunitarie, di profili sociali, ma sono, anche, forse soprattutto, attori che agiscono con le proprie modalità individuali, al culmine di opzioni proprie dei singoli, pur se al servizio di consuetudini e necessità più ampiamente partecipate, attori, che, nel dialogo con l'etnografa, raccontano se stessi e le loro storie.
Questa attiva sensibilità per la connotazione individuale del fare culturale ha forse preso le mosse nella infanzia di una bambina nata in una famiglia di origine spagnola, una bambina figlia e nipote di artisti e intellettuali cosmopoliti, itineranti in mezza Europa, approdata a san Domenico di Fiesole per vicende più grandi di lei, e perciò impegnata a costruire il proprio mondo sociale in assenza di uno scenario di rapporti consolidati e oltre la ristretta famiglia di appartenenza, una costruzione condotta attraverso relazioni dirette, bidirezionali, direi, da persona a persona, o meglio, da bambina a persona.
A cominciare dalla sua tata mugellana, l'Albina, che intonava le arie d'opera e gli stornelli, e dai suoi compagni all'asilo e a scuola, figli di famiglie contadine, in un'area, allora, largamente rurale.
Così è stato, successivamente, quando l'interesse per le espressioni cantate e le narrazioni tradizionali è divenuto prassi quotidiana e una ragione di vita. La sua interlocuzione con informatrici e informatori è stata, dunque, un felice rapporto tra persone: la Paradisa di san Giovanni Valdarno, conosciuta novantacinquenne ma ancora padrona di un repertorio estesissimo, l'Annida, incontrata quando ormai non conservava più i denti, ma i canti sì, la Maria Ringressi, che le trasmise centinaia di motivi melodici - un vero e proprio albero di canto, come avrebbe detto Bela Bartók: ancora una memoria vigile e infallibile in azione, quella della Ringressi - oppure, quel Francesco Piazzi, mitico poeta improvvisatore maremmano e custode delle memorie della miniera, che ha conservato a lungo un raro Maggio politico del '46, oppure, ancora, gli uomini della cosiddetta leggera, padroni solo di se stessi, senza altri beni che le loro vite, le loro storie, le loro canzoni.
Nella interlocuzione con persone e vicende straordinarie, Caterina Bueno è riuscita a far emergere differenze culturali radicali, frontalmente oppositive rispetto all'universo valoriale e agli assetti di potere dominanti negli ultimi decenni.
Una nettissima cifra libertaria, costantemente testimoniata, ha consentito a Caterina Bueno di avvicinarsi a modelli di alterità irriducibile, che pertengono non soltanto alle opzioni politiche, quanto, piuttosto, a scelte alimentari, alla percezione del tempo, del paesaggio e dell'ambiente di insediamento, alla conduzione dei rapporti interpersonali, fino ai modi di abbigliarsi, come era, per esempio, nel porsi dei carbonai, neri fantasmi dei boschi, annunciati dalla campanellina che usavano appendere all'orecchino.
In questo senso, il Lamento del carbonaio, individuato sul terreno da Caterina Bueno, e da lei cantato innumerevoli volte, assume un profilo paradigmatico: raccolto nel 1965, nella macchia sopra Castiglion della Pescaia, fu proposto a Caterina dall'informatore Domenico Bartolotti, allora settantenne, nato a Bastìa, in Corsica, testimone di una esperienza estrema di alterità, ma, anche, di antichissimi e mai interrotti rapporti di lavoro e legami di affetti tra le grandi isole tirreniche e la Toscana: una storia, questa, l'individuazione e il trasferimento in palcoscenico della Vita tremenda vita tribollata dei carbonai - così i versi iniziali, cantati da Caterina -, una storia che ha avuto uno sviluppo continuo, negli ultimi anni, non solo in più recenti rilevazioni etnografiche e in archivio, ma anche nella discografia e nello spettacolo dal vivo, se è vero che la stessa Gianna Nannini, tra gli altri, ne è rimasta rapita.
Attraverso queste vicende Caterina Bueno ha alimentato il mito della ricercatrice infaticabile, la Caterina raccattacanzoni, come era conosciuta negli anni Sessanta e come appare in un documentario cinematografico, girato nel 1967, che ne documenta gli itinerari di ricerca di allora. Ma non si è trattato soltanto di raccattar canzoni: nei suoi nastri ci sono lunghi e frequenti episodi di parlato, di dialogo: i protagonisti si raccontano, e disegnano le loro proprie storie, nella interazione con l'etnografa, Caterina, interessata alle persone e alle loro vicende individuali, irripetibili, come s'è detto. Nel corso della sua indagine sul terreno, Caterina Bueno ha raccolto una documentazione sonora imponente e rilevantissima, oggi senz'altro meritevole di una conservazione adeguata e di una fruizione più ampia e sicura.
Caterina Bueno, naturalmente, è anche una grande voce, inconfondibile e unica anch'essa, scura e roca nel timbro, singolarmente vicina a certi colori maschili, espressione di una personalità di interprete particolarmente vivace, e di una sensibilità femminile sensuale ed esuberante.
Con la trasposizione nello spettacolo dal vivo della sua singolare etnografia musicale, Caterina Bueno ha costruito precocemente il profilo di una interprete capace di rappresentare vivacemente in palcoscenico le storie delle alterità incontrate, rendendole quindi udibili e visibili anche a coloro che ne sono lontani.
Giovanissima, ha partecipato attivamente ad alcune esperienze di spettacolo fondative, nella storia culturale recente del nostro paese.
Ne ricordo ancora due: Bella ciao (Festival dei due mondi, Spoleto, 1964), Ci ragiono e canto (con la regia di Dario Fo, 1966); ha successivamente realizzato una imponente discografia da solista, talmente estesa che qui può essere soltanto ricordata, e numerosissime presenze nella radiofonia culturale e nella documentazione cinetelevisiva: a questo proposito richiamo la lunga serie televisiva Italia bella mostrati gentile, andata in onda nel 1978 (con la canzone omonima, nella sigla di testa, cantata dalla stessa Caterina Bueno), e il ciclo Il tempo e la memoria, trasmesso nel 1980.
Nella sua opera di interprete vocale e solista, Caterina Bueno ha espresso l'identità musicale e culturale della Toscana profonda, come pochi: si può perciò dire, senza timore di essere smentiti, che la sua voce sia la voce della Toscana.
Nella sua lunghissima attività di interprete Caterina Bueno, inoltre, ha scoperto e promosso numerosi musicisti che, da questo esordio comune, hanno poi tratto alimento per la costruzione di una autonoma carriera di interpreti.
Fra i primi, cito Francesco De Gregori, timido chitarrista accompagnatore di Caterina Bueno, prima di diventare una star, e a lei legatissimo, fino a dedicarle una delle sue migliori canzoni.
Ricordo due glorie toscane, il chitarrista Maurizio Gerì e il compositore/organettista Riccardo Tesi, il chitarrista sardo Alberto Balìa, il giovane chitarrista e tamburellista calabrese Valentino Santagàti.
E aggiungo i nomi di alcuni eccellenti musicisti di formazione accademica, attratti verso il mondo popolare dalle malìe intessute da Caterina: i due fratelli fiorentini Pietro e Tea Vismara, i chitarristi Antonio De Rose e Flavio Cucchi, il fiorentino Andrea Degli Innocenti, precocemente scomparso, la violinista e liutaia americana Jamie Lazzàra, fiorentina d'adozione e fedelissima collaboratrice musicale. L'opera di ricercatrice e l'agire di artista di Caterina Bueno rappresentano una prospettiva coraggiosa e innovativa di interpretare le espressioni che ci arrivano dal passato: nella sua maniera di intendere le tradizioni non emergono nostalgie e rimpianto, ma memorie ed esperienze reali di vita, che producono ancora, nel presente, pensiero, pensiero musicale, pensiero politico, consapevolezza sociale.
E posso soltanto citare ancora certe precoci esperienze teatrali di Caterina Bueno, anch'esse pionieristiche e significative per la città di Firenze: la fondazione del Cabaret '65, una esperienza singolare e ormai remota, in cui trovò spazio anche la rappresentazione di episodi dal Diario minimo di Umberto Eco - allora non famosissimo come oggi, evidentemente - e tutto l'insieme delle attività teatrali e culturali condotte presso la Casa del Popolo Andrea del Sarto, in cui fecero le prime prove professionali artisti oggi autorevolissimi, come Massimo Castri.
Infine, una recentissima, 2005, e meritoria operazione editoriale, promossa da Warner Music Italia, ci consente di avere disponibili in CD, oggi, i tre vecchi Long Playing che Caterina Bueno aveva registrato tra il 1973 e il 1976, per la mitica Collana Folk - così si diceva negli anni Settanta - la Collana Folk della Fonit Cetra, allora prestigiosa consociata RAI, oggi scomparsa, con il catalogo ormai disperso: così, quei vecchi dischi di Caterina sarebbero rimasti oggetti da collezionisti, orgogliosamente e gelosamente conservati in casa, e quasi inascoltabili, per l'usura prodotta dai frequentissimi passaggi sotto la severa puntina del giradischi: invece, finalmente, sono di nuovo a disposizione degli amici, dei fedeli estimatori, dei musicisti, dei compagni di lotta, di avventura e di viaggio, ma anche di quei giovani, studiosi e musicisti, che riprendono a esplorare esperienze artistiche e vicende culturali, forse eccentriche o singolari, o anche bizzarre, rispetto ai modi espressivi e sociali di oggi, ma, forse, proprio per questo, assai più intriganti e seducenti.