Donne tra Sorie e leggenda
Patrizia Lungonelli
Storie toscane di coraggio, d'amore e di morte di Mario Tobino è un testo pubblicato da Edizioni del Cerro, (Pisa) la prima volta nel 1980 con una tiratura limitata di 120 copie, insieme a tre litografie di Antonio Possenti ritraenti le protagoniste femminili delle vicende narrate. Due di questi racconti comparvero sul "Corriere della sera" nel 1981 e come afferma l'Editore nell'introduzione, si trattava di materiale quasi inedito, tanto che si pensò di riproporlo al pubblico con una ristampa nel 1999.
La lettura di questa recente edizione, mi ha fatto pensare alle infinite storie (conosciute o meno) della nostra tradizione che animano il mondo della leggenda popolare e che oscillano tra le coordinate della Storia e quelle della fantasia.
Dal punto di vista simbolico, Tobino, conoscitore della psiche umana, sembra introdurci in un mondo interiore che ha la linearità del racconto fiabesco dove il coraggio, l'audacia, le passioni narcisistiche, i desideri, le trasgressioni, le debolezze, rivivono attraverso il ricordo della tradizione e dei miti del passato. I personaggi verosimili, si muovono in epoche e città reali ma secondo i desideri, le intenzioni, le emozioni dello scrittore.
Si tratta di racconti che evocano per l'atmosfera, la magia della fiaba dentro un contenuto d'intreccio tipico della novella. Come nelle età arcaiche dell'umanità, il narratore assume una specie di funzione rituale delineando una sorta di genere narrativo. Le storie di Mario Tobino, pur appartenendo alla letteratura scritta, lasciano nel lettore una sensazione di grande evanescenza, quella stessa che si prova nell'ascolto di un racconto "orale". In fondo penso che molti autori del passato, abbiano attinto dalla narrativa orale, quando uomini e donne tramandavano a voce il patrimonio di credenze, di esperienze storiche individuali e collettive, in una parola: tutte le conoscenze di una comunità che rappresentavano la propria identità culturale.
Ma veniamo alle storie narrate da Mario Tobino.
Le tre litografie sono di Antonio Possenti
La prima, Kinzica, la fanciulla che salvò Pisa, si svolge intorno al 1006.
In quel periodo la Repubblica Pisana, prevalentemente dedita al commercio e alla costruzioni di navi, cresceva e si espandeva nel benessere, grazie alla sua potenza marinara. Come molte delle cittadine costiere, il mare rappresentava una fonte di risorsa, ma anche un costante pericolo di invasione da parte di altri popoli. In quel periodo, infatti, i Saraceni guidati da Mugahid (Musetto) e dislocati nei territori della Sardegna, erano una continua minaccia per le coste liguri e tirreniche.
Saccheggi, violenze e morte erano le impronte terrificanti che lasciavano le loro incursioni in terraferma. I Pisani ardenti sostenitori della fede cristiana avevano già salvato in precedenza Roma e il Papa Giovanni XVIII dal pericolo delle flotte arabe combattendo alla foce del Tevere. Ma un nuovo attacco proveniente dalla Tunisia e dalla Spagna, verso le coste Calabresi, costrinse il Papa a chiedere di nuovo l'intervento della flotta pisana in sua difesa. Così ben presto le galee pisane solcarono il mare in dirczione della Calabria.
Musetto avvertito della spedizione, pensò di sfruttare l'occasione e di partire alla conquista di Pisa. L'assalto iniziò nelle ore in cui la città dormiva, nei quartieri abitati da mercanti e commercianti di varie nazionalità, compresi gli arabi e i musulmani che convivevano con i Pisani.
In questa parte della città viveva una delle famiglie più ricche di Pisa, i Sismondi. Il padre era partito con la flotta in soccorso del Papa, lasciando la moglie e la figlia, Kinzica, una fanciulla minuta e fragile con occhi bellissimi e folti capelli.
La notte del saccheggio Kinzica assistette alle violenze degli invasori e nonostante le suppliche della madre, si armò del suo coraggio e corse a svegliare l'altra parte della città, ancora immersa nel sonno ed ignara del pericolo. Appena uscita di casa, Kinzica, si accorse di essere inseguita negli angusti vicoli del suo quartiere, San Martino. Ella si voltò e notò che non si trattava di un soldato saraceno, ma di un giovane turco che viveva nella sua città e che molte volte l'aveva fissata per strada, provocando nella ragazza una reazione di rifiuto e di dissenso. Durante l'inseguimento l'uomo la braccò, Kinzica sentì il fiato di lui carico di vino e agile come un felino, gli gettò il mantello in faccia riuscendo a svincolare. Attraversò il ponte che divideva in due la città e iniziò a chiamare a raccolta gli abitanti: donne, vecchi, adolescenti, (poiché gli uomini erano in guerra),
suonando la campana della Torre del Palazzo degli Anziani.
Quel segnale arrivò anche ai Saraceni intenti nei saccheggi e negli stupri "di là d'Arno" i quali pensarono ad un rientro della flotta pisana dalla Calabria.
Musetto, temendo per le sue navi ancorate a largo, ordinò di ripiegare e di riprendere la via del ritorno in dirczione della Sardegna, lasciando bottino e prigionieri. Quando sorse il sole i Pisani poterono con un sollievo intravedere le vele degli invasori in ritirata.
Ancora oggi, dopo quasi mille anni, la figura di Kinzica dei Sismondi è ricordata nella tradizione pisana durante il corteo delle Antiche Repubbliche Marinare nel quale 320 figuranti sfilando in costume medievale, rievocando la potenza di Amalfi, Genova, Pisa e Venezia e le imbarcazionisi sfidano in una competizione agonistica di genuina passione sportiva.
Il diavolo a villa Mansi è una storia che Tobino apprese da un suo paziente ricoverato nel manicomio di Lucca quando lo scrittore esercitava la sua attività di psichiatra. Il giovane colto da un delirio cominciò ad urlare "Lucida, Lucida". Un infermiere del reparto che viveva nella campagna Lucchese vicino a Segromigno informò Tobino che il nome della donna invocata era da ricondursi a Lucida Mansi, quella degli specchi e del diavolo, una storia che raccontavano i vecchi. Lo psichiatra allora cominciò ad assecondare il delirio del paziente, chiedendogli se avesse visto Lucida e l'uomo rispose quattro volte dando una descrizione accurata della donna. E così si scopri che la leggenda di Lucida viveva ancora nell'immaginario popolare.
Lucida Mansi apparteneva ad una nobile famiglia lucchese, (palazzo Mansi è oggi sede del Museo nazionale di Lucca) e la sua leggenda fa parte del folclore di questa città.
Si narra che nacque nel 1606 e si unì in seconde nozze a Gaspero Mansi nel 1635. La leggenda narra che la donna fosse molto bella e di conseguenza assai amata e corteggiata. L'età avanzata del marito però, la rese disponibile agli adulteri e all'immoralità e la ricchezza ai fasti delle grandi feste e al divertimento. La famiglia Mansi trascorreva la villeggiatura nel castello di Catureglio o nella villa di Segromigno in Monte, (quest'ultima tutt'ora esistente).
Si narra che i numerosi amanti di Lucida, ospitati in queste residenze estive, spesso non facessero ritorno a Lucca poiché sparivano nei trabocchetti quando la donna si stancava di loro. Lucida visse anni di sfrenata passione per la sua bellezza, ma un tardo pomeriggio d'estate mentre contemplava il suo corpo e si estasiava nel ammirare la sua nudità, scoprì un segno dell'età: una piccola ruga che le solcava la guancia. Gli specchi di cui amava circondarsi, divennero all'improvviso dei nemici e il terrore della vecchiaia si impossessò della donna.
In uno dei successivi pomeriggi d'estate, comparve nella villa un giovane bellissimo, che si rivelò essere il diavolo. Quest'ultimo propose a Lucida uno scambio: la sua anima in cambio di 30 anni di splendore giovanile. Ella esitò un attimo, poi con un sospiro accettò l'offerta. Fu così che per altri anni Lucida Mansi continuò la sua vita di piaceri e di svago.
Ma in un'estate calda, il piacevole frinire delle cicale fu interrotto di nuovo dall'apparizione del diavolo che ricordò a Lucida la promessa fatta molto tempo prima. Un grosso boato accompagnato da un lampo trasformò le belle forme della giovane in grassi vermi e Lucida sprofondò all'inferno. Eppure Lucida non è morta, molti giovani ancora impazziscono d'amore per lei, come il paziente ricordato nel racconto di Tobino.
Sembra che chi la incontri, ne rimanga ammaliato. Dicono che delle volte essa percorre su un cocchio infuocato il Viale delle mura di Lucca, nelle notti senza luna e al sorgere del sole il cocchio s'immerge nel laghetto del Giardino Botanico vicino alle mura della città.
La terza storia, Isabella e Eleonora, le più belle di Firenze strozzate dai loro mariti è ambientata durante il regno di Cosimo I dei Medici che governò i tenitori della Toscana dal 1569 al 1574. Isabella era figlia del Granduca e di Eleonora di Toledo. Era una giovane radiosa per intelligenza e per bellezza, si dedicava all'arte della musica e della poesia.
Fu data in sposa a Paolo Giordano Orsini, signore di Bracciano, ma questa unione ben presto cominciò a vacillare per la lussuria e i bagordi dell'uomo, rozzo e obeso fino alla deformità. Isabella che era la donna più affascinante di Firenze, s'innamorò di Troilo, cugino di Paolo Giordano e tutore della donna durante l'assenza del marito. Ma Troilo era un uomo evanescente che non poteva competere con 1' intelligenza e la cultura di Isabella, la quale insoddisfatta e delusa, si stancò ben presto di lui. Provò allora a riavvicinarsi al marito, lasciando Firenze per un periodo e trasferendosi a Bracciano. Quel luogo di gran lunga desolato le fece provare nostalgia per la vita raffinata e colta della città toscana.
Così tornò a Firenze e per dimenticare la sua triste condizione di moglie, iniziò a dedicarsi ai piaceri della vita mondana. Sua cugina Eleonora fu la compagna con cui condivise le ebbrezze della stravaganza e dello svago. Eleonora nipote di Cosimo I era cresciuta nella famiglia Medici, adottata dal Granduca alla morte della sorella ed era stata concessa in sposa a Pietro fratello di Isabella. Le due donne, ebbero in comune la sfortuna di aver sposato uomini dissoluti e dediti ai gozzovigli. Così si sentirono compiici di un destino infame fino a prendere la strada dell'evasione e della frivolezza ignorando pettegolezzi e maldicenze.
Morto Cosimo I, Francesco I, fratello di Isabella, successe al padre nella guida di Firenze. Da subito mostrò fastidio per le ottemperanze della sorella e della cugina, al punto di spingere i due rozzi mariti alla vendetta. L'istigatore e i due assassini, nonostante i loro peccati e protetti dalle ombre della chiesa, pensarono così di lavare l'onore dei Medici.
Isabella perì nel castello di Cerreto Guidi ed Eleonora nel palazzo di Cafaggiolo, entrambe strangolate nel luglio del 1576.
tratto da Il Cantastorie anno 42° n.66